Bombamerda

Correva l'anno 1992 o giù di lì. Mi apprestavo ad iniziare il mio periodo di tirocinio come biologo presso un laboratorio pubblico. Quel periodo demenziale nel quale uno dovrebbe imparare la pratica della professione, ma in realtà lo usano come mano d'opera sostitutiva dei tecnici di laboratorio. Ultima stanza a destra per due mesi. Leggo scritto sulla porta a vetri "Batteriologia umana". "Cazzo", penso, "sembrano fare sul serio". Entro e conosco i miei due colleghi. Capisco subito che devo ridimensionare le mie buone impressioni.
Franz e Bepi, a rigoroso rispetto della proporzionale, erano i due tecnici del laboratorio. Entrambi nati e vissuti su due laghi, l'uno sulle sponde del lago di Caldaro e l'altro nei pressi del Lago di Bracciano. Probabilmente l'amore per la microbiologia lo avevano ereditato dai bagni nelle limacciose rispettive acque. Sono un tipico esempio di scontro etnico-politico. L'uno SVP, l'altro democristiano. Non perdono nessuna occasione per punzecchiarsi a vicenda. E'evidente che ognuno dei due pensa che l'altro sia un coglione. Per me lo sono entrambi.
Per loro il sottoscritto è un ragazzino che deve fare esperienza e pertanto cominciano ad esibirsi in ardite spiegazioni sulle tecniche utilizzate nel laboratorio, sulla classificazione dei batteri e sui terreni di coltura. Il problema è che non lo fanno cercando di spiegare qualcosa a me, bensì ognuno dei due tenta di dimostrare che è più bravo dell'altro. Risultato: dopo un'ora di Bibì e Bibò il sottoscritto non ha capito un cazzo. Poco male, mi studierò tutto da solo.
In seguito scoprirò che, per oscuri meccanismi di reclutamento del personale, i due appartenevano alla vecchia guardia, ossia quella parte di tecnici che avevano raggiunto il loro ruolo attraverso un affrettato corso di specializzazione, by-passando diploma ed università, ed ora se ne stavano lì , con una licenza media in tasca, a diagnosticare malattie infettive e a fare spermogrammi.
Inizialmente la cosa mi sembrava piuttosto assurda, ma in seguito mi accorsi che quel lavoro non richiedeva un grosso investimento in termini di sforzo intellettivo.
I due marpioni cercarono di erudirmi più velocemente possibile, per rendermi operativo e per poter avere più tempo da dedicare alla lettura dei quotidiani locali. Pigliare un'ansa di platino, "flambarla" su di un becco Bumbsen (una fiamma a gas che rimane costantemente accesa), infilarla in un fagottino di merda o dentro una boccetta di urina, per poi strisciarla su di un bel terreno di coltura rosso carminio (il tutto facendo attenzione a non sputacchiare troppi germi sul nostro prezioso materiale) è cosa piuttosto facile. Coprocultura ed urocultura, sembrano nomi altisonanti, intrisi di quel fascino particolare che hanno le cose mediche. Piscio o merda fermentate per 24 ore a 37 °C, in un ammasso gelatinoso a base di estratto d'alghe, brodo di carne, vitamine e pigmento sensibile all'acidità, danno un'idea molto meno ammagliante di quello che facevamo.
E così, in breve tempo, divenni il re delle coprocolture (letteralmente colture di merda). All'inizio la cosa mi schifava abbastanza. Dovevo frenare le onde peristaltiche inverse quando mi portavano il vassoio con i boccettini riempiti di materia marrone (alle volte anche giallina e verde). Poi il rituale era sempre lo stesso, e mi ci abituai:
a) stendere un tappeto di carta igienica su tutto il banco da lavoro
b) ordinare i boccettini in fila per uno come fossero disciplinati soldatini (tutti in mimetica color cachi)
c) aprire i contenitori uno alla volta e prelevare una minima aliquota del materiale fecale, indi distribuirlo sul terreno di coltura contenuto in una capsula di plastica e riporre la capsula in un apposito scaffale termostatato a 37°C ed in atmosfera controllata. Il tutto da ripetersi scrupolosamente per le decine di merde fresche portate ogni mattina.
Normalmente riuscivo a compiere il mio lavoro abbastanza velocemente. Evitando che gli effluvi gassosi dei boccettini si diffondessero nella stanza per strangolarci in una abbraccio mortale. Ma in luglio le cose cambiarono. Per due motivi.
Allora per le feste campestri era richiesto il libretto sanitario. Cuochi e personale vario dovevano dimostrare di non essere portatori di qualche malattia infettiva che si potesse trasmettere per via fecale. Ed allora ecco che i vari volontari dei vigili del fuoco, volontari della croce bianca e schuetzen si sottoponevano in massa alla famigerata analisi batteriologica delle feci. Ed arrivavano montagne di boccettini. C'era anche chi esagerava e portava vasetti "Bormiolli" per le confetture riempiti fino all'orlo (manco fosse marmellata di castagne). All'aumento della mole marrone di lavoro si aggiunse l'aumento della temperatura ambiente. Il laboratorio non era dotato d'aria condizionata e lì la temperatura raggiungeva regolarmente i 30°. Con l'ampliamento della temperatura d'incubazione a tutta la stanza i processi di proliferazione dei microbi iniziavano prima che le merde venissero infilate negli armadi termostatati ed il gas che si produceva nei boccettini poteva avere effetti devastanti. La lava marrone era in piena attività pochi minuti dopo che i donatori avevano depositato il loro carico prezioso.
Non so a quante atmosfere potessero resistere i tappi di plastica dei bocettini. Ma si può ancora parlare di atmosfera quando un reggimento di batteri fecali decide di scoreggiare in massa? Di fatto le cose dovevano essere fatte in fretta. Il perché ora lo si capirà. Io lo capii in ritardo ed a mio scapito, perché i due bastardissimi colleghi non mi avevano detto nulla in proposito.
Il vulcano Fujimori era il quinto da sinistra. Innocuo campioncino di sterco umano, innocente ammasso di feci, ma che, silenzioso, stava preparando la sua esplosiva entrata in scena. In quel flaconcino ormai non più sterile si nascondeva un pensoso ammasso di lava marrone, che si accingeva a vendicarsi dell'uso improprio del suo nome proprio (merda) nei turpiloqui della gente umana.
Partii e come al solito, con mano sicura e di lattice guantata, iniziai a scoperchiare i bocettini. Al mio tocco esultavano, i tappi si aprivano dolci assecondando la pressione interna e la vita che fermentava in loro mi salutava con una manciata di molecole maleodoranti. Meno tre, due, uno…inesorabilmente mi avvicinavo a quel contenitore insolitamente più pieno degli altri. Infine fu il suo turno.
Un crepitio fra le mani, uno sbuffo, un sibilo ed il coperchio saltò via come un tappo di Ferrari Brut "Riserva Speciale". Un geyser di merda esplose sul banco di bianca maiolica, inzaccherando pareti, guanti ed il candido camice del sottoscritto. Gli effluvi contaminarono all'istante l'aria di tutto il laboratorio, stringendo in una stretta mortale il mio stomaco. Non riuscii a trattenere un sonoro "Che schifo!!!", che echeggiò fin nella sala prelievi, alimentando preoccupati pensieri in chi si accingeva ad essere sottoposto alle analisi del sangue.
I miei colleghi dimostrarono nervi d'acciaio, gestendo perfettamente la situazione e srotolando una decina di metri di carta per la pulizia del banco. Sulle pareti le macchie marroni avevano già fatto dimora e a nulla valeva l'uso di carta, stracci e di detersivo antisettico per farle sloggiare. Fu allora che mi accorsi che quella parete di fianco al banco da lavoro era un immenso cielo bianco punteggiato da stelline marroni. E, come un serio planetario che si rispetti, presentava di fianco ad ogni costellazione un numerino, una data ed un nome. Una lunga serie di esplosioni che avevano animato la vita dei miei due neocolleghi, quanto fuochi d'artificio sparati in qualche occasione speciale.
Mr. Fritz, in grado di aspirare 50 ml di urina attraverso una pipetta sterile senza berne neppure un microlitro, ci raggiunse dalla stanza delle uroculture. Un sorriso complice, un ammiccamento soddisfatto e sorridendo mi indicò il grappolo di macchie marroni che portavano il suo nome e la data di qualche anno prima. "Benvenuto nel club!" mi disse, offrendomi la mano guantata in segno di solidale amicizia, cementata da quello spruzzo di cacca secca.
Qualche secondo in religioso silenzio ed il lavoro riprese, lento, uguale, inesorabile. Chi alle cacche, chi agli sputi, chi ai tamponi oro-faringei o agli strisci vaginali. Tutti a coltivare gli umori di una città che silenziosamente fermenta nei corpi dei suoi stessi cittadini. Sotto il sole d'agosto, compressa da una cappa d'afa al 100% d'umidità relativa, con popolazioni microbiche in crescita esponenziale, la città ribolliva e si contorceva dentro le sue viscere.
Ed io aspettavo che, come per il flaconcino numero cinque, si scatenasse un enorme effluvio di gas e materiale maleodorante, una nube marrone che avrebbe oscurato il cielo ed imbrattato case e strade.
Lavorare lì mi faceva venire strani pensieri. Fu per questo che decisi di smettere.

Mento

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